Pac vs Green Deal. L’agricoltura assedia la città. Chi vincerà?

La coperta è talmente corta che qualsiasi cosa si tocca esplode. Nelle ultime settimane le “rivolte dei trattori” stanno animando non poco l’Europa e più recentemente anche l’Italia. Partiamo dal presupposto che l’agricoltura è caratterizzata da questioni controverse e tentiamo di osservarle a partire da alcuni elementi specifici, senza la pretesa in poche righe di spiegare tutto.

Le politiche sono il problema?

Le politiche pubbliche, come ricorda Bruno Dente11, non sono solo regolamenti o decisioni ma rappresentano anche sistemi di valori e identità collettive. A partire da ciò, osserviamo quindi uno scontro tra due blocchi: la Politica Agricola Comunitaria (PAC) e il Green Deal. È lecito chiedersi chi ne uscirà vittorioso, visto che nell’Europa di ieri e di oggi stanno ricoprendo un ruolo importante. Sono consapevole che una semplificazione di questo tipo può essere considerata eccessiva, ma proviamo a tenerla comunque in piedi. Se l’agricoltura oggi è diventata un soggetto sfaccettato e a tratti controverso, è anche per effetto di meccanismi interni alla PAC che ne hanno trasformato radicalmente la struttura dalla sua fondazione nel 1962. Trasformazioni necessarie anche per effetto di una società che cambia e con essa i suoi sistemi di valori. Se siamo arrivati a questo scontro non ci dovremmo nemmeno stupire troppo. I cambiamenti talvolta possono essere così rapidi che ciò consideravamo come assodato viene improvvisamente messo in discussione. La transizione ecologica ne è un esempio e quello a cui assistiamo è dunque una ripoliticizzazione del Green Deal, come giustamente ricorda Gilles Gressani2.

Fonte: Il Post

Non ci sono solo gli agricoltori, ma anche i meccanismi.

Le rivolte tendono a rappresentare l’agricoltura come un monolite; ma non è così. È interessante notare come nel recente dibattito pubblico emerga quasi sempre la figura del contadino in qualità di anello debole della catena, spesso messo in difficoltà da una politica dei prezzi fuori dal suo controllo. In parte è vero, ma la ridefinizione di alcune regole fondamentali della PAC degli ultimi venticinque anni (si pensi, ad esempio, al Regolamento (CE) N. 2200/96 per il settore ortofrutticolo) hanno spinto la filiera agricola verso una concentrazione dell’offerta, attraverso finanziamenti e aiuti economici in favore, soprattutto, delle grandi cooperative (cosiddette Organizzazioni di Produttori – OP) o dell’industria della trasformazione, per consentirgli investimenti in tecnologie, macchinari, controlli sanitari o servizi vari affini all’agricoltura. Tutto ciò, ha quindi progressivamente generato delle catene di produzione estremamente centralizzate. Da un lato, si è favorita la concentrazione della filiera produttiva in mano a pochi attori chiave; dall’altro, si è “obbligato” gli agricoltori ad aggregarsi sotto queste organizzazioni, per non rimanere tagliati fuori dal mercato. Ritengo sia corretto parlare di contadini e sussidi, ma il rischio è poi di sottovalutare i meccanismi della PAC, spesso assenti nel dibattito pubblico, di cui hanno beneficiato soprattutto alcune grandi imprese o cooperative.
Un altro grande assente nel dibattito è il territorio. L’agricoltura viene discussa come un’attività completamente lontana dai luoghi. Per certi versi, questo ideale slegarsi dal suolo e dai problemi sociali, per allacciarsi solamente a problematiche di efficacia economica, rischia di renderla un oggetto neutro rispetto agli effettivi problemi che certe pratiche agricole scaricano sui territori.

Cos’è l’agricoltura oggi? Il monolite si sgretola

Significativamente l’agricoltura è forse l’ultima industria rimasta in Italia. L’avanzare dell’economia dei servizi e la progressiva deindustrializzazione, trasforma questo settore come uno degli ultimi con ancora manodopera. Alla luce dei meccanismi di finanziamento appena spiegati, i benefici però non arrivano a tutti indistintamente. Possiamo quindi suddividere l’agricoltura in due grandi gruppi: il primo, a basso valore aggiunto, cioè l’agricoltura cerealicola-foraggera; il secondo, ad alto valore aggiunto, come frutta e uva per la produzione di vino. Teniamo consapevolmente fuori la parte relativa all’allevamento e alla produzione di latte e manteniamoci in questa duplice rappresentazione perché più efficace. L’agricoltura a basso valore aggiunto è rappresentata da un campagna più povera con margini più ridotti nelle vendite dei propri prodotti e, talvolta, a rischio spopolamento. Diverso è invece il discorso per quella ad alto valore aggiunto, in grado di produrre ricchezza come, per esempio, le aree di produzione del prosecco che negli ultimi anni hanno generato ottimi guadagni per effetto dei volumi di export in costante crescita (+234% dal 2003 al 2015), tali da mettere in discussione l’immaginario collettivo del povero agricoltore. Questa agricoltura possiamo dire che ce l’ha fatta, al punto da ipotizzarne il successo anche senza l’aiuto delle grandi politiche come la PAC.
Gli effetti di questa efficienza sono riscontrabili in una buona remunerazione dei prodotti in grado ampiamente di coprire i costi e nel mantenimento della popolazione nelle aree rurali.

Politiche che si fanno solo politica: limiti all’innovazione

L’effetto della ripoliticizzazione del Green Deal diventa quindi occasione per “interrogarsi” sulla natura processuale che questa politica assume attraverso i conflitti sociali. Ragionare in questi termini è forse una visione ottimistica di ciò che sta avvenendo, vista la vicinanza alle elezioni europee e l’oggettiva difficoltà di affrontare un sano dibattito sull’agricoltura senza demagogia. Difficoltà ulteriormente aggravate, almeno per l’Italia, da comportamenti sindacali di una delle principali associazioni di categoria (Coldiretti) che non riesce più a definire una posizione autonoma rispetto a quelle del governo italiano e, quest’ultimo, che concepisce l’agricoltura esclusivamente a suon di marketing, sussidi, tasse, carne sintetica e pasta spaziale.
Il conflitto di per sé non è negativo e può rappresentare una “via all’innovazione”. L’importante è che l’Europa non assuma un approccio autoritativo, come probabilmente tenderebbe a fare il governo italiano, cioè ossessionato dal consenso, rimuove il conflitto per accaparrarsi il ruolo di mediatore del trattamento dei problemi sociali (non facendoli emergere)3. Quanto piuttosto riuscire a vedere il conflitto come modalità di trattamento dei problemi, o di suoi singoli aspetti, senza illudersi che i compromessi a cui si giungerà rappresentino una soluzione definitiva; come forse è stato ingenuamente pensato al momento dell’approvazione della Farm to Fork e del Green Deal. Insomma, ciò a cui assistiamo diventa una “messa alla prova” delle politiche di transizione verde, nella speranza che non frani tutto. Mentre scrivo queste righe appare nei giornali la dichiarazione del ritiro del regolamento SUR4 da parte di Von der Leyen. Tutto ciò mette fortemente in discussione l’ottimismo appena dichiarato, e forse non più sufficiente per affrontare questo nuovo scenario di rivolta.

Quale visione? Ci serve più pianificazione e relazione

La politica italiana di sinistra deve interrogarsi per capire come coniugare la visione di giustizia sociale e ambientale all’interno non solo dell’agricoltura, ma anche dei meccanismi che la governano, come quelli, ad esempio, descritti nei paragrafi precedenti. Ciò che oggi la campagna rappresenta non è solo un immaginario seducente fatto di armonia e silenzio in contrapposizione alla città; quanto, piuttosto, un assemblaggio sofisticato di tecnologie, macchinari, chimica e infrastrutture che ne definisce un panorama profondamente “artificializzato”, non così distante dalle urbanizzazioni urbane. Il territorio che ne consegue non è un soggetto neutro o passivo, ma è causa ed effetto delle trasformazioni sociali, perché l’organizzazione e l’uso dello spazio riflettono la struttura sociale e contribuiscono a mantenerla e riprodurla5. Discutere l’agricoltura solo da un punto di vista dei sussidi (giusti o sbagliati che siano) o di quanti pesticidi usare per limitare i danni ad un ambiente concepito in modo astratto, ci porterà a non vedere i problemi sociali che si continueranno a scaricare sui territori a diverse scale. Tutto ciò, non farà altro che alimentare rotture a danno di un’agricoltura sempre più isolata rispetto alle questioni sociali e territoriali che scatena. Non possiamo invocare solamente un’Europa sociale, verde e giusta senza pensare ad un buon governo del territorio. E come tale la pianificazione deve tornare a giocarne un ruolo. Bisogna avere il coraggio di pensare ad un nuovo modo di vivere lo spazio, e per realizzare queste cose dobbiamo ripensare le relazioni che l’agricoltura genera al suo interno e nel suo intorno.

  1. È stato in Italia tra i principali esperti di analisi delle politiche pubbliche e professore al Politecnico di Milano. ↩︎
  2. Gilles Gressani insegna a Sciences Po ed è direttore editoriale della rivista “Le Gran Continent” fondata nel 2019. ↩︎
  3. Per approfondire il ruolo dei conflitti nelle politiche pubbliche, si può far riferimento al testo “Pratiche. Il territorio «è l’uso che se ne fa»” di Pier Luigi Crosta. ↩︎
  4. Si tratta del Regulation of the european parliament and of the council on the sustainable use of plant protection products and amending regulation (EU). Cioè la proposta di regolamento sull’uso sostenibile di pesticidi della Commissione europea lanciata nel giugno 2022. ↩︎
  5. A tal proposito, interessante la posizione di Oriol Nel·lo in “Vincles socials i fractures territorials”, disponibile al link: https://oriolnello.blogspot.com/2023/06/vincles-socials-i-fractures-territorials.html ↩︎

Lascia un commento